dal libro CANZONI E RESISTENZA
atti del convegno nazionale di studi
Biella, 16 – 17 ottobre 1998

con interventi di Cesare Bermani, Emilio Jona, Riccardo Schwamenthal, Mimmo Boninelli, Franco Castelli, Fausto Amodei, Madaski, Roberto Leydi, Alberto Lovatto e altri…


ORA E SEMPRE RESISTENZA?
Alberto Cesa

C'era una volta...
La casualità, per dirla alla Jacques Monod, è il sale della verità. Avevo conosciuto, con alcuni amici vacanzieri (la casualità, appunto), un partigiano che gestiva un ristoro a base di frittelle e coniglio dentro una chiesa sconsacrata dell'entroterra savonese. Andavamo da lui la sera per mangiare e cantare. Ad ogni nostro canto partigiano (la maggioranza) ripeteva: "Qui dentro, finché ci sarò io, nessun tedesco ci metterà piede". Era il '70, '71. Vidi con i miei occhi (poi diventammo anche amici) un povero tedesco sulla cinquantina che ascoltava ogni sera i nostri canti oltre il muretto di cinta. Era stato perfino un antinazista... Niente da fare! Lì, finché ebbi notizia di quella gestione, lui non entrò!
Sempre di quegli anni ricordo le chiacchierate e le cantate con i partigiani del Cuneese, di Boves in particolare. Ci accompagnai più volte anche i ragazzi della mia scuola. Erano lezioni di vita, di stile, di tutto.
Ricordo i partigiani conosciuti nei circoli e nelle osterie del Biellese (la terra dei miei avi), quelli dell'Ossola, della val di Susa, delle valli di Lanzo. Ricordo un partigiano che, davanti al Cantovivo dei primi passi (Cantovivo è il gruppo che ho costituito nel '74 e con cui vado tuttora "in giro per il mondo"), stette per tutto il concerto ad ascoltare con aria minacciosa per poi dirci beffardamente alla fine: "Voi cantate queste cose, bravi, bravi.., ma sapete cosa vuol dire sparare invece che cantare?!".
Ricordo l'entusiasmo con cui negli anni "caldi" cercavamo di contribuire, nel nostro piccolo, a far rinascere un filo diretto tra l'Italia che cambiava e la storia partigiana. Una fatica immane, e già allora spesso inutile: nel Trentennale della Liberazione (era il '75, l'anno del trionfo elettorale delle sinistre), organizzato da un'Arci ancora efficiente, girammo in lungo e in largo per il Piemonte a presentare un recital di poesie e canzoni intitolato "Ora e sempre Resistenza". Una volta si presentò soltanto l'omino apriteatro che decise, anche lui molto sconsolato, di andare a chiamare "almeno quelli del comitato"...
Ricordo il lungo buio degli anni delle cittàdabere, in cui eravamo quasi sbeffeggiati (dall'area "progressista") per l'ostinazione con cui continuavamo, soli e imperterriti, a onorare la memoria del 25 aprile, finché non arrivò la "sinistra" sveglia, berlusconiana dei '94! Ci fu allora (complice anche l'imprevedibile "sdoganamento" missino) una rinascita straordinaria delle coscienze antifasciste, che sospinse finalmente la nostra tenace "resistenza" musicale oltre la ristretta area "nostalgica" in cui ci avevano fino a lì relegati. Ma, come cantò Villa (Claudio...), "gli anni passano e"...
Nel '99 partecipai ad un concertomanifestazione contro l'incredibile guerrafondismo dell'Europa delle sinistre (che stia diventando corretto definire "sinistro" tutto quello che porta disgrazie?) organizzato da una sedicente "sinistraarci" di Torino. Nel locale "di tendenza" (tutti in piedi al freddo) scelto per la manifestazione c'erano rocchettari, rappisti e via dicendo. L'unico a cantare, nel senso comune del termine, era il sottoscritto. Ero anche l'unico, insieme al mio accompagnatore, a suonare strumenti acustici e per questo destinato ad un confronto quantomeno impari. Decisi di non andarmene (come forse avrei dovuto!) e attaccai.
Non capii se, e in quanti, mi ascoltassero. Cantai cinque canzoni tra cui "La Gap", la bomba musicale di Fo, in cui si denuncia la Resistenzaincompiuta partendo da un episodio operaiogappista vero (sottolineo vero, trattandosi di un autore più volte sorpreso a "giocare" con la storia, mentre in quel caso avevo personalmente conosciuto una operaia della fabbrica del racconto che me ne aveva confermato l'autenticità). Alla fine scesi dal palco incazzato e depresso per l'imbecillità suicida di quella che doveva essere nei propositi la parte più seria e combattiva della sinistra. Stavo liberando il mio sfogo ai quattro compagniamici con cui ero arrivato in quel posto, quando dal mucchio indefinito dei giovani che giravano a vuoto sotto il palco, mi venne incontro una ragazza, molto carina, sui diciott'anni. "Il fascino della mia voce ha colpito ancora" pensai con l'abituale presunzione. Mi strinse la mano e mi disse "grazie!". Di fronte alla mia faccia sorpresa (e ancora stordita dall'immensa fatica psicofisica appena terminata) decise allora di aggiungere "grazie, per quello che hai cantato! Tu e il Cantovivo siete gli unici che cantano ancora queste cose, grazie!". Capii che era con un piccolo gruppo di altri ragazzi giovanissimi e solidali con lei. Pensai a De André, a quel suo stupendo e poetico deterrente antipessimismo raccolto nella brevissima frase dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono ifior... e andai a farmi una birra, già pronto a ricominciare!

La Resistenza nel (e del) folk
Come avrete ormai capito, vorrei affrontare (o girare intorno, sopra, sotto, fuori...) il tema della "Canzone e Resistenza", partendo dalla mia esperienza di cantastorie, di musicante. Un musicante difolkrevival (sarebbe più appropriato dire dijòlksurvival) impegnato da sempre, oltre che nel recupero della tradizione "di casa" (piemontese, occitanoprovenzale ecc.), anche sul fronte della canzone di protesta e di opposizione (italiana ed internazionale), con una speciale attenzione verso il repertorio legato alla Resistenza italiana. Perché, dopo aver chiarito di non voler aggiungere alcunché alle analisi storicomusicologiche degli studiosi, credo, in tutta umiltà, di poter invece indicare, proprio partendo dall'esperienza mia e di Cantovivo, qualche percorso praticabile (o almeno qualche spunto concreto su cui riflettere) a quanti, in una misura che mi sento di definire desolante, si affacciano ancora (o di nuovo) con curiosità ad un tema ormai così lontano dalle nostre attuali esperienze umane e politiche. Parlo delle emozioni, dei pensieri, delle esplorazioni culturali e politiche che da venticinque anni accompagnano il nostro percorso musicale. Emozioni, idee, progetti, sogni che non abbiamo mai abbandonato, neppure quando la realtà pareva averli schiacciati per sempre.
Non c'è stato riflusso, rampantismo, edonismo craxianoreaganiano, caduta di muri, cambi di rotta e di terminologie, opportunismi affaristici mascherati da intenti culturali (accolti senza troppa "resistenza" anche dalla mia "purissima" sinistra).., a farci demordere. Siamo stati tra i pochi (se non gli unici) del folk italiano a mantenere in repertorio i canti di lotta e partigiani negli anni "smemorati" e siamo stati quasi certamente i primi a sottolineare il risveglio politico dei primi anni novanta con quello che definimmo il combatfolk: la sintetica sigla antagonista con cui (prima dell'ennesimo flusso modaiolo nostrano) contornammo la copertina di "ControCanto Popolare", il cd che realizzammo per il Cinquantennale della Liberazione e che "il manifesto" ci pubblicò nel '96, al culmine di quel risveglio "berlusconiano" a cui ho fatto cenno nella prima parte di questo mio intervento, e che corrisponde, ci tengo a ricordarlo, al momento più straordinario della nostra vita artistica. Perché fu il periodo in cui finalmente (non era successo neanche negli anni caldi degli inizi) ci trovammo a condividere la nostra battaglia musicale con i protagonisti veri delle imprese che cantavamo.
Eravamo riusciti a conquistare, per spiegarmi meglio, anche in ragione dell'ormai lunga militanza, un pubblico "plurigenerazionale" nel quale, a fianco dei ragazzi dei centri sociali, dei compagni maturi con relativi figli in kefia e stemma guevariano, spiccavano ad ogni nostro concerto, sempre più numerose, le teste canute ed i volti ringalluzziti (che allegria!!!) dei vecchi partigiani, diventati i più assidui e scalmanati dei nostri fans.
Fu straordinario! Sicuramente, e non soltanto per noi! Ma il bello di tutta la faccenda, e la ragione per cui ho voluto intervenire qui, è che da parte nostra non facemmo niente di straordinario! Se non il fatto di continuare a proporre con lo stesso amore e la stessa sincerità di sempre, la parte più vera e combattiva della Resistenza cantata.
Tutto questo deve restare un nostro umilissimo motivo di orgoglio o quella nostra "ricetta" semplice e naturale di coerenza e continuità può essere considerata (e ripresa) come un piccolo punto di riferimento ancora oggi, nel deserto culturale in cui ci siamo venuti a trovare?

Mentre ci pensate...
Torno al 1995-96, all'allegria che ho prima raccontato di quei vecchi partigiani che, fazzoletto rosso al collo, non perdevano un nostro concerto, per dire due cose: la prima, che ancora una volta le divisioni suicide della sinistra (quanto mi piacerebbe nascessero confronti "ricostruttivi" su questo versante!) riportarono indietro l'orologio di quell'allegria, riconducendo velocemente il fenomeno alla regola degenerativa a cui probabilmente non ci sottrarremo più; la seconda, che anche in quell'occasione ci infilammo le nostre belle scarpe rotte (soltanto musicali, ovviamente e fortunatamente!) per riprendere l'unica strada che credo sia da seguire nei momenti in cui (mai come oggi!) il pessimismo della ragione si presenta invincibile. La strada dei bastiàn contràri: di quei pazzi secolari che come i salmoni vanno controcorrente senza preoccuparsi della violenza della stessa, forse perché sanno di non appartenere alla razza di quei pesci fuor d'acqua che Mao diceva fossero gli intellettuali che "nuotano" fuori dalla loro storia. Io, che personalmente bastiàn contrario ci sono nato (non solo artisticamente) posso confermare che si tratta di una razza che difficilmente si rassegna...
E un piccolo contributo personale al mantenimento della "leggenda", ho voluto darlo proprio di recente quando, nella mia ultima fatica musicale, in un contesto assolutamente refrattario, ho imposto a me e agli altri la regola della mia stirpe, dedicando uno dei miei "Fogli Volanti" alla Resistenza, con una canzone intitolata "Partigiano" (da “Fogli Volanti”. 11 nuove ballate di Alberto Cesa per raccontare, tra cronaca e storia, 25 anni di avventure musicali, cddiario, TorinoSetteLa Stampa, nn. dal 21 ottobre al 21 novembre 1999, in occasione dei venticinque anni dei Cantovivo. Nel disco il testo è eseguito con arrangiamento musicale di Gerardo Cardinale; eseguono: Alberto Cesa, Silvano Biolatti, Gerardo Cardinale, Pier Luigi Lora, Massimo Sartori, Loredana Bottaccini, Debora Sgro, Aurelio Pitino, Aldo Valente)

Partigiano

C'era una volta un ponte difficile da attraversare, un ponte che separava l'uccidere e l'amare, ma gli uomini che conquistarono di forza la sponda buona oggi son suoni inutili, una musica che non funziona.

E c'era un'altra volta un tempo, un tempo meno scemo, che i giovani cercavano, io non ero da meno, dai vecchi di capire quello che non andava, quello che tra i libri e il cuore come il fuoco li divorava.

È così che son partito un giorno come tanti con la chitarra in spalla, con gli occhi aperti e attenti a ricercare i suoni e i ritmi del passato, di quello che da bravi avevamo ben studiato.

Così mi trovai in montagna con un vecchio partigiano davanti a del buon vino e al ricordo ormai lontano dei suoi anni più belli, della sua grande occasione, dei giorni della lotta diventati una canzone.

E il suo canto partì deciso come i canti della sua terra, con voce Jòrte e fiera come i suoi passi di guerra.

E ogni nota era dolcezza, malinconia, rabbia e rancore, il rancore dei vent'anni ribelli per amore, gettati a muso duro nel fuoco oltre quel ponte per colorare invano di rosso l'orizzonte.

E il mio canto lo seguiva, ma era timido come di un bambino, mi usciva dalla gola strozzato e ballerino mentre il suo sguardo allegro a poco a poco si intristiva, riattraversando il sogno che sul nascere moriva.

Ma canta con più forza, non starci su a pensare, con la chitarra in mano hai tanto da gridare e allora grida forte per chi non l'ha ancor capito che il partigiano ha vinto e l'Italia lo ha tradito.

Era già notte fonda e il vino ci scaldava, era la prima volta che la mia voce andava decisa insieme al canto rabbioso e popolare di chi, senza aver niente, questo mondo provò a cambiare.

E poi dopo vent'anni musicante di mestiere lassù son ritornato e lo volli rivedere e andai all'osteria di quel giorno lontano, ma c'era un bar moderno di stile americano.

E i tavoli, il bancone, le sedie ed i bicchieri, i jeans ed i giubbotti, i clienti e i camerieri, le facce, i tramezzini, i discorsi, i sorrisini erano alla moda, firmati e un po 'cretini.

E intorno nella valle c'era un silenzio disperato, non c'era neanche l'ombra del suo grande passato e quella vecchia voce anche lei se n'era andata, solo da un anno morta da mille ormai scordata.

E allora mi è scoppiato nel cuore e nel cervello il ricordo di quel canto adesso ancor più bello, coi miei quattro compagni come un coro di marziani abbiam rispolverato quei versi proprio strani.

E di nuovo le montagne con quel colpo di mano ritornarono a scandire come nel tempo lontano, dalle balze alle pendici, dalle cime fino al piano, il passo duro e cadenzato di quel vecchio partigiano.

E ogni nota era un fucile puntato dritto al cuore di quell'insopportabile indifferenza senza amore,
puntato contro il grugno dell'imbecillità rinata, laccata, qualunquista e telecomandata.

E il suo canto tornò deciso come i canti della sua terra, con voce forte e fiera come i suoi passi di guerra. Lo so che non serve a niente, ma sarà dura a morire l'eco della montagna anche per chi non vuoi sentire.

E allora canta ancora, non starci su a pensare, con la chitarra in mano hai tanto da gridare e allora grida forte per chi non l'ha ancora capito che il partigiano ha vinto e l'Italia l'ha tradito.


"Partigiano" è il racconto dei mio personale approccio (iniziato tanti anni fa, ahimé!) con il mondo dei partigiani, ma, se vogliamo riprendere le considerazioni fin qui fatte, può anche essere lo spunto per un percorso riproponibile.
Ci sono ancora molti partigiani "vivi" e disponibili al racconto. Dobbiamo invogliare i ragazzi del 2000 a ripescarli, cominciando, come già noi facemmo, dalle memorie familiari: tanto più che, a differenza della mia generazione, non hanno più da "abbandonare il nido" per volare alla conquista del mondo, ma stanno in casa, con molto "tempo libero" (omaggio del neoliberismo) da utilizzare! Dall'incontro con le "fonti" culturali della memoria partigiana riceverebbero un aiuto enorme alla lettura dei presente. Sul piano musicale (com'è già avvenuto dentro il mondo del jazz e del rock) troverebbero nel "passato popolare" una chiave di lettura importante per decifrare la confusione espressiva del presente. Una chiave che li aiuterebbe a trasformarsi da semplici destinatari commerciali (seppure di belle confezioni) a protagonisti di scelte consapevoli, e che ce li farebbe forse ritrovare alleati (di noi vecchi, "ultimi idealisti"!) nel faticoso tentativo di convincere la parte tuttora migliore del mondo della cultura (anche qui mi voglio illudere di rimbrottare la sinistra) a non gettare più alle ortiche la nostra bella memoria popolare. E forse ancora (ma è solo un sogno?) lavorerebbero fianco a fianco con noi per ridare alla vera cultura popolare la primazia sui suoi più o meno famosi derivati, "cretinismo celtico" (una antica e tuttora felice definizione leydiana) compreso...
Parola di folksinger! Che ama l'ethno, la world, la rooth, la ... vera musica celtica!

Dalle radici...
D'altronde, per tornare al canto partigiano, ho maturato su di esso, dall'alto, o meglio dal basso (demartinianamente) della mia trentennale militanza musicale, una convinzione che ritengo difficilmente confutabile, e cioè che al di là dei suoi riflessi sul "mondo della cultura", rappresenta un fenomeno di assoluta pertinenza popolare: una vera e propria costola dell'antica tradizione popolare da cui dipende nel destino della propria vitalità e sopravvivenza.
Laddove il mondo musicale popolare, contadino soprattutto, ma anche operaio, comincia a "morire", il canto partigiano ne segue la sorte.

Al futuro...
È vero che occorrerebbe distinguere a questo punto, come già fece Roberto Leydi molti anni fa (lui segnalò ben otto categorie!), il canto partigiano nato in corso d'opera per bocca di quei contadini e di quegli operai che avevano scelto la montagna e che con naturalezza (come già nella grande guerra) avevano innestato, per raccontare la loro nuova esperienza umana, delle parole nuove sulle arie antiche e familiari che avevano fin lì abitualmente praticato, da quello che, durante come dopo, nasceva sulle più disparate strutture musicali (italiane, russe, leggere, colte, classiche...) pur di rendere efficace la storicizzazione del racconto.., ma credo, e lo ribadisco con forza, che il cuore di quell'esperienza sia stato assolutamente popolare, e che pertanto oggi potrebbe tornare a battere soltanto se trapiantato in un "corpo" altrettanto popolare che lo sappia accogliere: intendo un nuovo contesto di cultura popolare che riesca ad unire le ragioni politiche ed espressive di allora a quelle del nostro tempo.
Perché, se è vero che si è determinata negli anni una discontinuità espressiva, è vero anche che esiste una continuità politica e culturale tra chi, ieri come oggi, vive relegato ai margini della vita e della storia. Ed è proprio da questa continuità che ci viene ancora oggi la più grande ragione di "resistenza": una ragione, nel mio campo, di insistenza a cantare, sicuramente contro chi della Resistenza "trasforma" o uccide la memoria, ma anche contro chi ne sbiadisce, più o meno consapevolmente, la vera anima: un'anima profondamente antagonista alla società che umiliò a lungo i nostri nonni e i nostri padri e che non cessa di ripresentarsi di tanto in tanto con volto nuovo ma uguale arroganza.

Che fare?
Si tratta di una battaglia da combattere lungo tutti i versanti che la riguardano e con tutti gli strumenti culturali di cui riusciamo a disporre, invenzioni comprese. Una battaglia nella quale ritengo necessario riattivare forme di militanza che spingano (come ai tempi della Resistenza) i giovani e gli anziani a unirsi nella ricerca di una sintesi nuova e comune. Che li ispiri a correggere, ciascuno per il proprio campo, le deviazioni e le degenerazioni culturali venutesi a determinare in questi anni e che corrispondono grosso modo, per l'area anziana al passatismo esasperato e settario (sempre suicida, seppure a fuoco lento), per quella giovanile al "modernismo" pretenzioso e fasullo che trova un esempio eclatante nella marketingrevolution degli sfruttatori degli incolpevoli e "sprovveduti" ragazzi dei centri sociali.
Lo so che tentare di recuperare, anche in campo musicale, l'antico spirito resistente, quello che sul campo di guerra seppe mescolare senza alcun problema il vecchio con il nuovo, può sembrare pretenzioso e astorico, ma perché non provarci? Perché, partendo dalla sempre più diffusa insofferenza verso l'incontrastato processo di globalizzazione delle coscienze, non proviamo, "eccentrici" di ogni età, a disegnare un fronte culturale comune che contenga, anzi che parta dalla nostra bella e vincente memoria partigiana per innestare in modo credibile, fruibile e accattivante sull'impianto storico (magari con più attenzione di quanto non sia già stato fatto con "Materiale resistente") i nuovi linguaggi "ribelli", italiani e internazionali? Forse tornerebbe finalmente a risuonare attorno a noi, con forza nuova e naturale, l'eco delle note di lotta, denuncia, verità e democrazia che attraversò le nostre montagne tra il '43 e il '45. In ogni caso, e non sarebbe cosa di poco conto, costruiremmo un'arma micidiale contro l'attuale efferata consegna "buonista" della storia partigiana alla par condicio dei ricordi comuni di tempi da dimenticare. Per quanto mi riguarda, ho messo da tempo in soffitta le analisi, le interpretazioni, le classificazioni ("leydiane" e non) e finché troverò un "Cent" con cui cantare, come nell'estate del '99, insieme a decine di giovani compagni, la canzone dei suoi partigiani (in quel caso delle valli di Lanzo) sull'aria di "Piemontesina bella" e, perché no, una bella ragazza che me ne ringrazierà... continuerò a "cantarepartigiano"!

Ps: la bandiera era rossa?
Un giorno di molti anni fa mi capitò tra le mani un testo scolastico con canzoni partigiane. Lo sfogliai. Ci trovai "Fischia il vento". Fantastico! Finalmente, pensai, dopo l'ecumenica "Bella ciao", si aprivano le porte ai canti più schierati. Corsi velocemente all'ultimo verso in cui il partigiano sventolava con fierezza la "rossa sua bandiera" e scoprii che ne sventolava invece una "italica"! Mi incazzai. Poi pensai che piuttosto di niente, forse era meglio che quello, come altri canti partigiani a sfondo rosso, pagassero un piccolo prezzo pur di circolare. Poi pensai che era tutto una grande fesseria, perché la vera matrice resistenziale era rossa... e mi riincazzai! Credo con ragione! Perché era davvero così. Ne sono convinto! Tant'è che anche in questa occasione ho voluto ribadirlo, rivolgendomi pressoché esclusivamente all'area della sinistra, che pure nel panorama antifascista (storico) generale non è stata sicuramente l'unica.
Quello che vorrei dire, per concludere, è che, con tutto il rispetto per ciascuna componente resistenziale (badogliani compresi!), il contributo determinante al riscatto culturale e politico del nostro Paese dalla dittatura fascista lo diedero i partigiani comunisti (chiunque, anche tra gli ex o post comunisti, abbia conservato un minimo di onestà intellettuale, non potrebbe non riconoscerlo) e che io sono tra quelli ancora orgogliosi di averli incontrati e di averne ereditato, insieme alle canzoni, i sogni e gli ideali.
Ma davvero, oltre la sfera dei padroni della Terra (della nostra storia e ormai anche del nostro futuro), c'è chi può sostenere in buona fede che il capitalismo, o più "modernamente" il mercato, anzi il mercato globale, detto globalismo, "piuttosto che" il liberismo (neo, selvaggio, radicale o solidale che sia), per non parlare della neonata new economy, abbiano davvero sconfitto le ragioni umane, politiche, esistenziali, che hanno spinto milioni di uomini e donne della Terra a scendere nelle piazze, a occupare i campi e le fabbriche, a salire sulle montagne (come i nostri partigiani) a lottare e a farsi ammazzare sventolando la bandiera rossa?




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Sabato 27 Luglio 2024