CUBA SI ?
dal DISCOLIBRO “iFOGLI VOLANTI di Alberto Cesa - diario di un musicante” (il manifesto - 067)


Nel Dicembre del ‘96, dopo averlo sognato per una vita, atterrai finalmente a Cuba: con il Cantovivo e quel diavolo di Mauro-il-mandrògno dell’Arci di Biella!
Non voglio qui aggiungere (sto scrivendo queste misere righe nei giorni immediatamente successivi ai grandi servizi “papali” dall’Isla Grande di Bruno Vespa, Nuccio Fava, Fabrizietto Del Noce...) altre pedanti riflessioni alle troppe in circolazione di questi tempi, siano quelle “nuove” sul “destino di Cuba”, siano quelle ormai trite sulla “specificità di Cuba”, sul... “mal di Cuba” (che c’é), sul “miracolo cubano” (che c’é), sull’ “orgoglio cubano” (che c’é), sulla “convinta adesione del popolo cubano al castrismo” (che c’é abbastanza), sul “mito del Che che resiste” (Oh yéa!), sul bloqueo maldito (...los yanquis son grandullones cantava Carlos Puebla, lo stesso di Hasta Siempre Comandante), sul “ritmo nel sangue” (sanno i lettori di Topolino, del Reader’s Digest, di Gente viaggi, delle Ore, che quell’ affascinante-dimenamento-primordiale è in realtà uno dei più impertinenti sberleffi alla loro supponente imbecillità?), sui “bambini delle scuole che stan bene” (meglio dei “capitalistini” milanesi)... qui voglio soltanto ricordare, tra gli spettacoli in teatro, gli interventi musicali nelle scuole, gli incontri ufficiali, le commemorazioni, le serate d’allegria che abbiamo vissuto, due piccoli episodi: riguardanti rispettivamente il nostro concerto nella Casa della Cultura di Regla, e la partecipazione alla rassegna rock (!) di Marianao.

Cuba comunista
Regla é la Reggio Emilia di Cuba. Vi fu fondato il partito comunista. E’ tuttora una roccaforte di Fidel. E’ anche il porto della Habana e, come tutti i quartieri portuali, dà di sé un’immagine forte, cupa, molto dura.
Ci arrivammo col solito ghua-ghua (leggi uà-ua). Lo sbuffante e “fumettistico” pullman polacco (o cecoslovacco?) degli Anni ‘60 con cui ogni giorno ci prelevavano dal bellissimo centro per studenti, dov’eravamo ospitati, alla periferia della capitale, per scorrazzarci lungo i vari appuntamenti musicali. Sul ghua-ghua oltre all’autista e all’aiuto autista (caramba!) viaggiava, sempre seduta davanti sulla destra, immobile come una folena, la responsabile comunale (il nostro assessore) alla cultura, Teresa. Una donna già matura e molto saggia, che nascondeva, dietro una maschera di grande serietà, un’anima dolce e prevalentemente ironica, rivelata per altro dai suoi numerosi e straordinari sorrisi.
Da lei, fedelissimo funzionario di partito, imparammo per esempio a giocare con l’inno-alla-gioia messicano Cielito lindo (contestualizzandolo alla realtà molto pertinente di Cuba), per scandire musicalmente gli intoppi che, inevitabili, movimentarono il nostro allegro girovagare sotto il cielo macondiano dell’isola (il pullman che perdeva olio, il concerto nel Centro Arabo Cubano annullato perché nessuno si era segnato l’indirizzo... cambiato da sei mesi, l’impianto elettrico saltato... “per finta”, per nascondere “tranquillamente” l’impossibilità di procurarci un impianto voci...) tanto che Ahi ahi ahi, canta no jores, porque cantando se alegra, cielito lindo, los corazones! (canta, non piangere, perché cantando, cielito lindo, si rallegrano i cuori!) diventò il leitmotiv della tournée e, dopo la nostra partenza, una ragione reciproca di allegro ricordo.
Tornando a Regla, quando scendemmo dal bus, dopo aver visitato l’affascinante struttura del Centro (metà La Scala di campagna, metà vecchio-circolo-Arci delle nostre barriere metropolitane) affidammo, come sempre, cavi e strumenti ai nostri... due-tecnici-due (per l’occasione cubana si era entusiasticamente aggregato a noi e quindi al nostro abituale “ingegnere del suono” Enzo Di Vara, il primo leggendario folk-sound-server-man del Cantovivo: il Maestro Defendente-Vivenza-da-Cuneo). Di lì a poco fummo letteralmente sequestrati da un paio di dirigenti e portati in una specie di sede limitrofa di supporto: un posto pieno di gente dalla faccia ruvida, schietta e battagliera.
Sui tavoli, piazzati a ferro di cavallo, come in una nostra antica sede del PCI, c’era un’abbondanza insolita di pane, pomodori, formaggio, birra! Il tono dell’accoglienza era di quelli ufficiali, un po’ burocratici, ma di quel burocraticismo caraibico che sfuma sempre nella spontaneità. “Vedi - mi ripeteva fino all’esasperazione il Mauro che a Cuba ci andava ogni anno da dieci anni - qui ci sono i compagni duri, come i nostri partigiani”... Da lì a cantare Bella ciao il passo fu automatico.
Eravamo entrati nella storia. Come in quella in bianco e nero dei documentari di Zavoli, forse, ma era tutta lì davanti a noi, la Storia! Incrociavo lo sguardo di Umberto e mi tornava a boomerang la stessa emozione. In fondo, nei vent’anni che avevamo trascorso insieme passando dalla palude democristiana alla fogna berlusconiana, una soddisfazione come quella non c’era mai capitata. Sì, certo, io prima di lui avevo avuto il pubblico delle fabbriche occupate, dei partigiani ancora giovani e combattivi... ma insieme (si era unito al Cantovivo nel ‘78) avevamo costruito, dopo anni di “chiodi battuti” in solitudine e inutilmente, la soddisfazione “rifondarola” di risvegliare i partigiani (belli e pimpanti, in barba alla crudeltà del tempo), di animare musicalmente le rilanciate manifestazioni politiche, di essere accolti con grande rispetto nei centri sociali più agguerriti, di allargare la nostra base d’ascolto con due dischi pubblicati sotto le bandiere editoriali più prestigiose della Sinistra, Il Manifesto e Avvenimenti... ma lì era tutta un’altra dimensione!
Anche Massimo, il grande Massimo (che sembra un gioco di parole), flautista, polistrumentista, comunista, torinista (insomma, da dieci anni in piena sintonia con le sfighe cromosomiche del Cantovivo...) e Pier Luigi (quasi un mio figlio spirituale da quando lo avviai non ancora diciottenne, nell’89, alle infide vie del folk) erano completamente assorbiti ed estasiati dall’evento. Così come le nostre accompagnatrici (italiane!) ed i pochi rappresentanti dell’Arci presenti (gli altri “compagni” avevano preferito la chicha!).
Dopo Bella ciao, cantammo ancora El ejercito del Ebro, El tren blindado e altre canzoni del nostro storico-primo-disco dedicato all’antifascismo spagnolo (il mio pensiero corse più volte nostalgico ai compagni con cui avevo brindato, in un lontano pomeriggio del ‘75, alla fine di Franco e della sua dittatura), cantammo ovviamente anche la nostra versione della canzone del Che.
Tutto procedeva nella più allegra esaltazione generale quando, improvvisamente, l’atmosfera si fece solenne... Il più autorevole, anche nell’aspetto, di quei compagni, aveva chiesto la parola!
L’assemblea si zittì. Preparai la cinepresa. Dalla cucina arrivò altra gente a stipare ancor di più la sala. Dopo pochi secondi non si sentiva più volare una mosca (anche perché, come per le zanzare, i bombi, i tafani e tutti gli altri stramaledetti insetti del “mio” terrore italiano, lì non ce n’era l’ombra!). Quell’uomo sui sessantacinque anni, che sicuramente aveva combattuto al fianco di Fidel, di Camillo, del Che... esordì portando il “saluto del popolo cubano, dei compañeros cubanos, ai compagni italiani”. “Siamo felici e orgogliosi - continuò poi davanti alla mia telecamera - di ospitarvi in questo luogo storico dei comunisti cubani... A nome del partito e di Fidel vi porgo il più caloroso benvenuto! Hasta siempre Fidel Castro!” .
“Que viva”! Urlammo tutti, allargandoci di seguito, sull’orlo dell’orgasmo politico, al centro-socialesco “que viva el comandante Hernesto Che Guevara!”.
“Ma chi è quel compagno?”, chiesi al Mauro. “Deve essere il responsabile del partito per la Casa Della Cultura dove poi suonerete”, mi rispose. “Stupendo! - pensai - abbiamo ricevuto il saluto ufficiale forse più importante dopo quello di Fidel... ed è tutto documentato!
Ad un tratto entrò Enzo agitatissimo. “Che cazzo fate?! Di là vi stanno aspettando per il concerto” urlò. Per poco non lo picchiammo. “Ma ti rendi conto di dove sei, con chi stai parlando?” gli sbattemmo sul muso.
Gli spiegai velocemente la situazione. Si calmò (Enzo è un Compagno Vero, oltre che una persona di enorme generosità), sembrò quasi mortificato, ma continuava a insistere “di là però ci stanno rompendo i coglioni, vogliono cominciare!”... “Ma se i dirigenti sono tutti qua, chi cazzo può rompere i coglioni di là, qualche rompiballe e basta”, gli ribattei nervosissimo per l’incantesimo rotto. “Comunque sia - conclusi accomodante - andiamo di là e chiariamo tutto!”.
Salutammo a pugno chiuso, il lìder ci abbracciò, dandoci il benevolo assenso alla nostra uscita. Arrivammo alla Casa della Cultura. Non la faccio lunga: si celebrava il decennale della scomparsa della “Nilla Pizzi cubana”. Cantavano i più grandi interpreti della canzone melodica dell’isola. Con qualche vera e propria star. Noi aprimmo e chiudemmo la rassegna. Imparando su ogni altra cosa ad apprezzare l’essenza dell’arte, un valore ormai dimenticato dalle nostre anime completamente succubi dell’estetismo formale più depistante: perché su quel palco passarono chitarristi, cantanti, pianisti, di una bravura straordinaria, tutti assolutamente... indifferenti al tradimento elettrico di un impianto che qui avrebbe fatto rizzare i capelli perfino a Curzi.
In chiusura, dopo l’omaggio di Hasta siempre e il gemellaggio di Bella ciao, li invitammo a lanciarsi nel vortice (?) di alcune danze nostrane. Accettarono con la clausola dello scambio: li avremmo cioé dovuti seguire successivamente nelle loro.
Affare fatto!
Scivolarono tra gighe e curente con la stessa facilità di un maestro di sci tra le cunette di un baby. Ma non resistettero a lungo.
Ottenuto il nostro consenso ( e tutta la mia solidarietà!) inondarono finalmente quel salone dei loro ritmi straordinari. Non potei resistere! Gettai letteralmente la ghironda in un angolo e mi lanciai! Avevo già visto ballare e anche ballato, qualche volta a Torino, su quei ritmi caraibici, ma lì fu come entrare di fatto e perdutamente nella “trance” che avevo studiato sui libri del Sachs e di altri studiosi della danza. Ci fu un deragliamento generale. Nessuno si salvò... Io ricevetti anche i complimenti della più scatenata e ridondante ballerina della sala... ma, come nel nostro destino ineluttabile, fu uno sballo-interruptus! Sul più bello Teresa (ahi, ahi, ahi...) ci avvertì che il ghua-ghua doveva partire. Ci scambiammo indirizzi, abbracci ed uscimmmo verso il pullman.
Solo allora realizzai che il dirigente che ci aveva accolto all’inizio non era intervenuto alla festa. Convinsi gli altri a tornare nell’altra sede, sperando di poterlo ancora salutare.
Ci andammo. Entrammo e lo trovammo ancora lì, al suo posto... completamente ubriaco, nel pieno di una discussione molto confusa. Non ci riconobbe neppure! Dopo lo stupore ci informammo. Venimmo finalmente a sapere che era un semplice, simpatico, frequentatore di quel “bar” e che, entrambi, lui e il locale, non avevano un cazzo a che vedere con la Casa della Cultura se non ... la dislocazione territoriale... Ahi, ahi, ahi, ahi...

Cubarock!
Dopo aver passato il pomeriggio più interessante del nostro soggiorno in una scuola gestita da persone stupende, sia sotto il profilo umano che politico, ci recammo, verso sera, al Teatro di Marianao, dove lo staff dirigenziale del Comune ci aveva inserito come ospiti in una rassegna giovanile di rock.
Il teatro era enorme, con un ottimo palco, belle luci e un buon impianto sonoro. In fondo alla sala si stagliava grande e rassicurante l’ennesimo Hasta la victoria siempre.
I ragazzi dei gruppi di quella rassegna erano un po’ diversi dal cliché fin lì conosciuto nelle scuole. “Siamo in un quartiere a rischio - mi spiegò Teresa -per questo diamo ai giovani di qui molte più possibilità che ad altri. Il teatro lo controlliamo noi, ma in pratica se lo gestiscono loro”.
“Speriamo bene! - le risposi - ma sei sicura che il nostro folk qui ci può stare?”, le chiesi ancora osservando l’andazzo da strafigo-metallaro di qualche suonatore nelle prove. A tranquillizzarmi, più di Teresa, ci pensò il ricordo dei nostri amici del Gabrio di Torino (e di altri centri sociali italiani) che, tra un bombardamento hip hop e una scarica di ska-trip-punk-rap-rock, ci avevano sempre accolto con rispetto e simpatia. Appena sistemati gli strumenti mi si avvicinò un ragazzo, tenuto d’occhio a distanza dai suoi compagni di gruppo, per chiedermi informazioni sulla nostra musica, sugli strumenti e infine... sull’Italia. Mi disse allora di aver incontrato un manager italiano che li aveva ascoltati e che aveva loro promesso di lanciarli nel nostro paese.
“Ma guarda quei marpioni! - pensai disgustato - non solo vengono a Cuba per costruire sui loro polli italiani un’immagine-trend da contrabbandare ai fans-imbecilli, ma, già che ci sono, prendono per il culo i giovani musicisti locali, promettendo loro di lanciarli in Italia o chissà dove... non sono meno squallidi degli intrallazzatori “progressisti” e dei sessuofilo-solidaristi... che a Cuba ce n’é mica da ridere... ( alla fine - mi venne da pensare - vuoi vedere che i meno stronzi sono i puttanieri e gli imprenditori reazionari che almeno sai in partenza chi cazzo sono?)”. Gli dissi di non contare molto su quella promessa, tanto più che erano già passati inutilmente due anni... “Come possiamo fare? - insistette - noi non cerchiamo il successo, vorremmo soltanto fare un viaggio culturale, di scambio”. Aveva la faccia simpatica, così come i suoi compagni. “Posso provare con il nostro partito comunista - gli dissi allora - con la parte-buona dell’Arci, però dovresti lasciarmi una cassetta, del materiale... che cosa suonate?”. “Lo stile è il rock, ma suoniamo canzoni nostre”... “Interessante - lo interruppi - di che cosa parlano?”. “Parlano di ecologia e sono in inglese”. “Cosa?!”, mi scappò trasalendo. Ebbi la chiara percezione di trovarmi a tu per tu con un contestatore-del-regime in carne e ossa. Ed era pure simpatico!
“E con questo?” - direte voi - non lo sapevi che esistevano? Vuoi continuare a vivere fuori del tempo?”. Certo che lo sapevo, così come sapevo (un po’ meno di oggi, per la verità, seppure da quel viaggio non siano passati neanche quattro anni) che il “nostro” comunismo (ormai affidato quasi esclusivamente al mito-cubano) è oggi più un luogo dello spirito che una risorsa razionale...
Eppure (chissà?! Forse non ero preparato...) ebbi un momento di grande fastidio. Lo risolsi andando velocemente a prendere posizione sul palco... tanto più che toccava a noi cominciare. Umberto, Massimo e Gigi erano già piazzati. Detti due botterelle di sound check al microfono (ormai avevo imparato la lezione) e feci segno di essere pronto anch’io.
L’addetto spalancò allora la porta d’ingresso e fece entrare il pubblico: una massa disordinata e “stordita” (!?) di giovani, che si schierarono quasi tutti in piedi tra le sedie della sala, facendo un casino infernale. Partii con la presentazione. Il rumore si arricchì di qualche spunto provocatorio. “Abbiamo già sfidato di peggio, vinceremo anche qua”, pensai guardando l’Hasta la victoria siempre che campeggiava sopra le teste di quegli sciagurati, e attaccai. Alla fine della nostra prima esecuzione la platea si divise in due: metà applaudì disciplinatamente, l’altra metà bofonchiò, straparlò, ridacchiò, agitando bottiglie presumibilmente di rhum .
Per un istante persi la “dimensione-cubana” ormai acquisita e mi incazzai. Dissi forte al microfono (in uno spagnolo maccheronico ma chiarissimo) che dei loro amici mi avevano appena chiesto di aiutarli a suonare in Italia e che, se mai un giorno ci fossero davvero arrivati, i miei connazionali li avrebbero ascoltati con rispetto ed amicizia, gli stessi sentimenti che avevamo portato con noi nella loro Grande Isola. E riattaccai, pestando con rabbia sulla mia “compagna-yamaha”!
Suonammo improvvisamente nel silenzio generale. Guardai il volto bianco di Teresa e dei suoi “colleghi”, seduti nella fila centrale come statue di marmo.
Ma quel silenzio non resistette a lungo. Qualcuno riprese pian piano il “coraggio” di fare lo stronzo.
Nessuno, ancora una volta, si mosse per fermarli, nemmeno (ci contavo!) tra i musicisti di cui sopra. Rispettai allora le consegne, come un tedesco. Avevamo concordato trenta minuti: al trentesimo minuto spaccato mi alzai.
Ringraziai quelli che avevano ascoltato. Raccolsi cavi, ghironda e chitarra e con i miei compagni (di identico umore) mi precipitai verso l’uscita. Non posso dire se più deluso o più incazzato! Sfiorai l’interlocutore “inglese” che provò a parlarmi. Gli dissi bruscamente di lasciare il materiale a qualcun altro e lo mandai affanculo! Fuori nacque una discussione concitata. L’unica di tutto il tour. Alla fine, sbollita la rabbia dietro le sincere spiegazioni dei politici (mi avevano assicurato al cento per cento che non c’era stata provocazione verso un gruppo “comunista-straniero-imposto-dai-burocrati-del-regime”, ma che erano soltanto ragazzi di una periferia difficile, come ce ne saranno state in tutto il mondo, anche in Italia), chiesi scusa a Teresa e Teresa, a nome di tutti si scusò con me. Incassai la solidarietà di tutto lo staff italiano... e tutti assieme ci avviammo al fantastico dehors di canne del nostro “albergo”, per spararci qualche daiquiri consolatorio.
Quella serata fu l’unica nota stonata di un giro esaltante. Mi frulla ancora oggi nella testa. Perché non so se vi intravvidi la schiuma di un mare sotterraneo e pericoloso... o forse soltanto l’ansia nevrotica di ragazzi bombardati quotidianamente dai miti, anche musicali, delle televisioni capitaliste... L’unica cosa che rimpiango è di essermi irrecuperabilmente incazzato. Avrei dovuto parlare con loro, cercare di capire il perché delle loro reazioni... capire se il loro disagio corrispondeva a quello dei milioni di ragazzi delle periferie del mondo o se avesse invece radici in quello che da un momento all’altro potrebbe diventare l’ultimo sogno infranto della mia generazione. Un “destino amaro” da mettere in conto, considerando le accelerazioni pazzesche (e “ben” guidate) della storia negli ultimi anni... Che se è vero che ci hanno risparmiato di “morire democristiani” (cosa a cui eravamo rassegnati fino all’altro ieri, parlo sempre della mia generazione), è altresì certo che, in omaggio agli inevitabili transiti astrali discendenti dalla proverbiale costellazione della padella, non ci regaleranno sicuramente (noi esistenti-in-vita, come recitano i “pignoli” certificati anagrafici) la vista di un comunismo compiuto, abitato da uomini liberi e uguali... Quel comunismo corrispondente alla realizzazione della Grande-Utopia che da Platone a Tommaso Moro, da Campanella a Marx, a Che Guevara (pur con modi e obiettivi tra loro molto differenti), ha attraversato la storia dell’umanità, proponendosi ancora oggi come l’unico grande approdo di civiltà in cui il mondo può sperare per garantirsi la sopravvivivenza, di fronte all’inevitabile autodistruzione a cui lo porteranno l’egoismo e la prepotenza (del capitalismo, o del liberismo... se preferite un termine meno obsoleto) oggi trionfanti.
Cuba è stata ed è tuttora (nonostante l’accerchiamento ideologico e le “lacune” interne che anch’io conosco) una propaggine “credibile” di questa Grande-Utopia. Vedere dunque dei ragazzi, cresciuti in quella terra, la “gloriosa” (concedetemelo!) terra del Che, rinnegare la propria cultura, la propria storia, perfino la propria lingua, non poteva non farmi ribollire il sangue... e far passare in secondo piano qualsiasi altra considerazione, compresa quella non secondaria, e soprattutto confortata dall’esperienza diretta, che si trattava, in fondo, di quattro gatti, sperduti e isolati...
I hope!

Alberto Cesa (racconto scritto nel 1998)

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Domenica 1 Settembre 2024