IL CICLO DELLE STAGIONI nella cultura popolare
Alberto Cesa

Un’antica leggenda nordica racconta che al tempo dei tempi il mondo era completamente gelato. Gli uomini non conoscevano il fuoco, non vedevano mai il sole e mangiavano solo pesci crudi. Il dio del Gelo dominava incontrastato. Ma un giorno il dio del Sole, condannato a stare nascosto tra le nuvole, si svegliò e decise di affrontarlo. Il Gelo fu sconfitto e il Sole rimase con gli uomini: grati perché li riscaldava, oltre che per aver fatto uscire gli animali dai rifugi e crescere la vegetazione. Il Sole aveva anche regalato agli uomini il fuoco, insegnando loro ad usarlo per vincere l’oscurità, riscaldarsi e cucinare. Ma ad un certo punto la felicità degli uomini diventò abitudine.
Essi cessarono di essere grati al Sole, dimenticandosi di quanto fossero infelici prima della sua venuta. E il Sole, offeso, decise di andarsene. Lasciò loro il fuoco ammonendoli che si sarebbero ricordati di lui quando il Gelo li avesse di nuovo riconquistati: lo avrebbero invocato e solo allora sarebbe ritornato.
A questa e ad altre simili leggende si ispirano i riti propiziatori che attorno al solstizio d’inverno confluiscono nella “festa del Sole”, o comunque in rappresentazioni della sconfitta del freddo e dell’oscurità.
Le tradizioni orali del mondo popolare esprimono in generale un legame inscindibile con il ciclo della natura. In Europa lo esprimono attraverso forme rituali che conservano i caratteri pagani degli antichi miti di provenienza; anche dove l’egemonia culturale cristiana ha programmato le sue più solide sovrapposizioni. Come nel caso del Natale e della Pasqua, collocati rispettivamente attorno al solstizio d’inverno e all’equinozio di primavera: i momenti più radicati e significativi dell’anno “popolare”.
Basti osservare quanti elementi pre-cristiani (l’albero, il vischio, il ceppo, i doni...) sopravvivono nella rappresentazione moderna del Natale. E a come i protagonisti del mito cristiano siano entrati spogli di ogni retorica nei canti popolari: “Gesù Bambin l’è nato in Betelém - l’è zura ‘n po’ pàja, l’è zura ‘n po’ di fién...” (Gesù Bambino è nato sopra un po’ di paglia, sopra un po’ di fieno).
A Pasqua si consuma abitualmente il rituale dell’uovo, avendone smarrito le radici profonde, ramificate nelle più arcaiche ritualità primaverili: “cara capoccia porta giù vent’ova se lla parola mia t’ha detto troppo...” cantano i maggianti marchigiani e “duné de i’euv, dèn de i’euv de le vostre galìne - ca l’àn dit i vost ausìn che avì le gorbe pine...” (dateci delle uova, donateci delle uova delle vostre galline - che ci han detto i vostri vicini che avete le ceste piene), dice una delle tante strofe del canté i’euv (cantare le uova) l’usanza contadina, ancora praticata in alcune zone del Piemonte, di girare in gruppi per le cascine nel periodo pre-pasquale, con un canto di questua propiziatorio in cui l’uovo assume la simbologia magico-rituale della fertilità, della vitalità e dell’abbondanza.
Il mondo popolare offre dunque una scansione ritmica e armonica dell’anno, animandone i momenti chiave con consolidate forme di rappresentazione in cui emerge la forza comunicativa del canto.
Dal “cantar maggio” alle “chançons à boire” autunnali, ai “contrasti” tra le stagioni. “Inverno: ti istà che ‘t sei tan bun mantégni a l’umbra i to pultrùn...” Estate: “ti invern che ‘t sei tant trist, da la poura gent et sei mal vist - chi descàus e chi ‘n camìsa... dapertüt i pasa la bisa...” (tu estate che sei tanto brav(o)a mantieni all’ombra i tuoi poltroni, tu inverno che sei tanto triste dalla povera gente sei malvisto - chi scalzo chi in camicia... dappertutto passa l’aria fredda), recita un canto canavesano rappresentato durante il Carnevale.
E a proposito del Carnevale ci troviamo finalmente di fronte al clou dell’anno popolare, con risvolti affascinanti e in gran parte misteriosi. Si tratta infatti di un caso anomalo di ritualità non discendente da un mito riconoscibile, anche se le sue tracce ci conducono a manifestazioni collettive ugualmente dissennate e liberatorie fin dai tempi di Babilonia.
E’ emblematico della sua forza dissacrante e provocatoria, espressa al massimo nel periodo medioevale, la storica débâcle (caso unico) sùbita dalla Chiesa nei suoi confronti. Questo ha provocato due conseguenze: la prima è l’inserimento in molti carnevali di rituali pagani “espulsi” dagli altri riti; la seconda è che in assenza del comune riferimento ecclesiastico si è verificata un’atomizzazione di situazioni locali.
Nelle feste di Carnevale troviamo allora spunti storici, commedie tragicomiche, processi fasulli raffiguranti nei modi più disparati e bizzarri. Ma per scoprirne l’anima più inquieta ancora una volta dobbiamo rivolgerci alle canzoni: “... i padrùn suta ar cartùn e nui che i fuatàvu - e i preive en ter pursì e i crin cantavu mëssa - e er cioche a ieru ed bür e er corde ed sautisëtta...” (i padroni sotto al carro e i muli che li fustigavano - e i preti nel porcile e i maiali cantavano messa - e le campane erano di burro e le corde di salsiccetta).
Sono soltanto alcuni frammenti di una delle tante “cansùn büsiarde” (canzoni bugiarde), eredi delle allucinate visioni medioevali del “mondo alla rovescia”: di quell’enigmatico mito collettivo del ribaltamento di ogni ordine e valore che chiesa e potere hanno circoscritto nelle esplosioni carnevalesche per meglio controllarne la propulsione a quello che essi stessi definivano il “controtempo del peccato e del disordine”.


pubblicato dal quotidiano STAMPA SERA e dalla rivista HOMO LUDENS

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Mercoledì 6 Novembre 2024